mercoledì 24 marzo 2010

Molly che parla con le farfalle

Cosa può passare nella meravigliosa testolina di un cane che trascorre le sue ore a guardare le farfalle? Provate a immaginare un pastore tedesco di 40 kg, adulto seppur giovane, che salta dietro i merli e osserva il volo di un'ape. Per ore. E in quelle ore non conta nient'altro: non il cibo, non le carezze, non i giocattoli, non i compagni a 4 zampe. Tutta la vita di un grosso cane racchiusa nello sguardo perso nel zig-zag sereno di insetti ed animali volanti. Un'eterna cucciola, incurante del passare del tempo, dei tramonoti, dei pasti, degli anni. Eternamente giovane sì, ma eternamente segnata nell'animo da un'esperienza inimmaginabile di sevizie e botte. Di lei sappiamo solo quello che è anche stato scritto sui giornali; ovvero che è stata trovata in stato di shock mentre passeggiava (passeggiava!!) in mezzo ad una strada ad alta velocità e molto trafficata, sanguinanate e ferita al punto che non si sapeva da che parte prenderla. Ma il suo fisico è forte, ed è guarita. La sua mente provata da un passato di tortura invece non è guarita: Molly a volte c'è, sembra vederti, considerare la presenza. Ma tante volte no: si perde nelle piccolezze della natura, e ci resta finchè non decide lei stessa di uscirne, magari per mangiare. Io vorrei poterla seguire in quel mondo magico, e vorrei che lei potesse anche restarci, lì, dove le farfalle le sussurrano leggende lontane e gli uccelli le raccontano di posti incantevoli.

Piccola eterna cucciola, tu che osservi il volo degli insetti e degli uccelli, dove vorresti volare? Lontano dai brutti ricordi?

LA tua dignosi è autismo. Ma forse tu hai solo trovato il modo di essere felice.

mercoledì 17 marzo 2010

Libri maturi.

Ho scritto due romanzi e ne sto scrivendo un terzo: sono tutti di generi differenti. Diciamo che se i primi due potevano essere quantomeno simili (fantasy il primo, urban fantasy il secondo), il terzo non c’entra una cippa lippa con i precedenti (non c’è nulla di fantastico). Mi chiedo: può questo essere un sintomo d’immaturità? Forse lo scrittore maturo, quello pronto, è anche quello che ha un suo genere e che lo sente suo con una certa esclusività. Ci sto pensando da qualche giorno (da quando GL ha iniziato a pubblicare i post sulla sua esperienza editoriale), e non ho ancora trovato una risposta. Anche il pubblico dei lettori è diverso da libro a libro: il primo è per l’infanzia, il secondo per ragazzi (giovani adulti) il terzo ancora non lo so (potrebbe non avere un pubblico target, lo scoprirò alla fine. Perché io scrivo storie, non storie per).
Quindi io non ho un “genere” di riferimento. Al massimo ho qualcosa da dire, e uso una storia per comunicarla, una storia della quale devo innamorarmi all’istante.
Ma d’altra parte, quando questi personaggi sfondano la porta del mio cervello, posso io invitarli a uscire adducendo strane scuse relative alla necessità di impacchettare una storia di “genere”? Potrei anche provare, in effetti. Potrei ignorarli nella speranza che se ne vadano dalla mia testa. Ma perché farmi della violenza?
Eppure, mi chiedo anche: perché le mie idee sono così diverse l’una dall’altra? Perché non hanno una linea comune? Forse non sono pronta. O forse non serve appartenere ad un “genere” per essere scrittori. Chissà.

Ps
piccola soddisfazione che vi posto qua
http://www.houseofbooks.org/2010/03/17/contest-skeleton-creek/

lunedì 8 marzo 2010

La forza di chi è considerato debole

Sensibilità. Ogni volta che racconto a qualcuno quello che faccio per gli animali, I progetti futuri in quest'ambito, le sconvolgenti verità che nessuno conosce sul campo, salta sempre fuori questa parola: sensibilità.
"Siete più sensibili, voi donne."
Sarà anche vero, e allora? Io sono sensibile e tu sei insensibile e indifferente, chi dei due ha qualche problema?
Piangiamo di più? Può essere, ma prima dopo e durante il pianto tante di noi fanno qualcosa per impedire ad altri di piangere. La sensibilità ci rende più forti, al contrario di quel che tutti credono. Perchè è la sensibilità a spingerci ad agire. L'indifferenza, quella che fa dell'uomo un "macho", spinge solo a condurre la propria vita sterile, e non c'è niente di più inutile. Se sei insensibile eviterai di aiutare gli altri, perchè non te ne fregherà niente. Se sei insensibile non lotterai mai per cambiare quello che non va, perchè ti è indifferente. Se sei insensibile ti crederai forte, e invece sarai un codardo, perchè nessuna battaglia ti interesserà veramente, e quindi dove sta la tua forza? Nel non combattere?
Non siamo deboli, noi donne. Non dobbiamo essere difese nè salvate nè salvaguardate più degli uomini. Siamo persone, e i diritti delle persone sono uguali per tutti, non ce ne sono di speciali per le donne. E' per questi diritti che ci battiamo, e il fatto in certe società ce ne siano di meno o che non ce ne siano proprio per le donne non fa di noi delle creature deboli e indifese. Non serve fare il soldato per essere più forte. La forza è un'altra cosa, e non ci manca di certo.
La festa della donna non ci deve ricordare certo che siamo migliori (non è così, non necessariamente), nè a ricordare all'uomo che siamo dei fiorellini candidi. Serve per ricordare a tutti, uomini e donne, che da qualche parte ci sono ancora società nelle quali la parità dei sessi è un'utopia. Parità: non siamo nè meglio nè peggio. La nostra forza si esprime diversamente da quella dell'uomo: questo non fa di noi delle vittime, fa di noi delle creature che lottano per scopi a volte uguali a quelli degli uomini e a volte no, ma spesso con mezzi diversi. Spesso, non sempre. Perchè non siamo speciali. Si parla di grandi numeri, ovviamente. Ci sono donne orribili e uomini straordinari. In generale è vero che la donna è più sensibile, e io lo vedo dal database sempre aggiornato dei volontari italiani: 98% donne. Donne come me (senza modestia, ecchecazzo!) che si macinano km su km da sole, a volte di sera, a volte durante proibitive giornate invernali o festive, per far attraversare la penisola a dei cuccioli e salvare loro la vita. Che si alzano presto tutti i sabati e tutte le domeniche (dopo un'intera settimana di lavoro lontano da casa) per andare al canile e fare la propria parte anche quando nevica, quando fa freddo, quando è festa, quando si è stanchi da morire. Che passano il tempo libero (poco) (e che poi libero non è) a scrivere, divulgare, condividere, leggere e approfondire appelli che straziano il cuore. Che raccolgono brandelli (letteralmente) di animali investiti dalla strada. Che mettono mano anche al portafoglio (perchè sul cuore siamo tutti capaci) per salvare qualche creatura. Che trascurano la propria vita (e quella di chi si ama) per aiutare i figli di un Dio minore.
Tutto questo senza mai scordarsi di chi è debole e solo e indifeso ma che non ha la coda e non ha la pelliccia, ma che ha due gambe e appartiene alla categoria degli esseri umani. Tutto questo senza risparmiarsi anche per quelli della propria specie. Tutto questa senza mai smettere di essere anche donne, mamme, mogli, professioniste, casalinghe. Senza comunque smettere di vivere: perchè non ci basta esistere, noi vogliamo anche vivere.
Questa è forza. Siamo forti. Molto forti. Forti da far paura.

lunedì 1 marzo 2010

Maestra pancreatite

L'ho conosciuta nel 2006, e quella notte ho conosciuto di conseguenza il vero dolore fisico. Certo, ci sono miliardi di cose molto dolorose, ce ne sono una discreta quantità di più dolorose, ma non sono poi così tante e soprattutto sono abbastanza inusuali. La pancreatite, per intenderci, è molto più dolorosa di una qualunque colica renale e molto probabilmente è riconducibile ai dolori di un parto naturale, ma non porta con sè nè la consolazione di una buona causa nè la speranza di un futuro ricco di soddisfazioni derivanti dal nascituro. E' un dolore fine a sè stesso, profondo, che circonda il busto e sembra stritolarti in una morsa abbastanza potente da toglierti il respiro ma non abbastanza insistente da spaccarti il corpo a metà. E', soprattutto, un dolore bastardo. Bastardo perchè bussa alla porta di giorno, ti tedia ma con discrezione, come un tarlo, ma è abbastanza sopportabile da non allarmarti. Così vai a lavorare, lamentandoti del mal di schiena come una pensionata al supermercato, poi esci con la cugina, e vai all'ipercoop accennandole a quel fastidio all'altezza dei reni e del fianco destro, ma non ti preoccupi. La sera sei sola, perchè la mamma fa la notte e sai che il fidanzato ha la partita di calcetto. Però il mal di schiena comincia a essere un po' troppo fastidioso e quindi, in un'incredibile slancio di prudenza, telefoni a Davide prima che vada al campo di calcio e ti fai portare un tubetto di Voltaren. Il fidanzato, premuroso ma rassicurato dalla tua autodiagnosi (colpo della strega) ti spalma con amore il Voltaren, promette di lasciare il cell acceso durante la partita e poi va a giocare. Ed è mezz'ora dopo, che il dolore bastardo ti assale. Su quel divano, che è sempre stato uno scomodo portatore sano di cervicale, ora non resisti più. Muovendoti come un reduce da capottamento in automobile, ti alzi e vai a letto, dove di certo starai più comoda. Dove di certo il dolore si affievolirà. Ed effettivamente riesci addirittura ad appisolarti. Ma questo perchè il dolore è un bastardo: ti fa abbassare le difese, si accerta di coglierti di sorpresa, prima di attaccare. E quando attacca lo fa con la gendarmeria più pesante, in un'ondata unica e fitta e travolgente e soffocante, senza pietà, improvviso e sorprendente come solo il nemico più infimo e calcolatore può fare. E tu, inerme su quel letto, perdi tutto d'un colpo la pochissima lucidità che il dormiveglia ti aveva risparmiato. Senti che respirare equivale a piantarsi un coltello tra le costole, che piangere è impensabile perchè lo singhiozzare causa scosse dolorose allo stomaco che ti sembra venga preso a calci, che la sola idea di alzarsi per andare a prendere il cellulare ti può far svenire dal dolore. Perchè non sai cos'altro possa farti male, muovendoti. Se l'immobilità t'inchioda al letto in preda a ondate di fitte che a malapena ti consentono di respirare, cosa ti può accadere se ti alzi? Eppure, vuoi davvero passare la notte lì, da sola, con la compagnia di quel dolore bastardo? E allora ti alzi. Ti alzi e scopri che in piedi stai meglio, che puoi respirare anche se molto, molto, molto lentamente. Che se inali l'aria per uno massimo due secondi, i polmoni non esplodono come li avessero riempiti a dismisura. Sì, in piedi puoi resistere. Quando componi il numero di casa di Davide, e dall'altra parte senti la voce di tua suocera, scopri che anche piangere è diventato sopportabile, ma che ora che hai finalmente la libertà di singhiozzare, non hai la lucidità di parlare. Allora senti la voce del tuo fidanzato, che ha già capito tutto, e che dopo venti secondi sta già volando da te.
Poi inizia un lungo calvario, un ricovero sciagurato, una diagnosi scritta sugli esami del sangue che però, incredibilmente, i medici sembrano non saper leggere. Eppure è scritto a grandi lettere: amilasi pancreatica oltre dieci volte il massimo consentito. Ma no, la paziente è astemia, normopeso, giovane. Allora via, con le risonanze magnetiche. Nessuna malformazione. Poi un susseguirsi di ipotesi. Ma non è importante. Non è quello che conta. Conta la paura, perchè la notte quel dolore bastardo non si calma nemmeno dopo 3 dosi di antidolorofico (prima la pastiglia, poi le gocce, infine l'iniezione), e lo si mette a tacere solo con le flebo. Ecco, quelle sì, funzionano. Però niente cibo, perchè se anche non senti più dolore, i valori vanno alle stelle appena butti giù un chicco di riso. E così, per due settimane.
La pancreatite è stata maestra. Di dolore? No. Di spirito di sacrificio? No. Di pazienza? No. Di fede? no. Di amore? Sì.
Perchè lì, distesa sul letto (sollevato a 90 gradi, perchè poi la pancreatite ha gravi ripercussioni sullo stomaco anche se vuoto), ho sentito Davide che mi diceva: "Vorrei poter essere al posto tuo, per risparmiarti tutto questo". Ecco, gli ho creduto. E gli ho creduto perchè io mai e poi mai avrei voluto fare cambio, mai e poi mai avrei voluto vedere lui al mio posto, a lottare contro un male che avrebbe avuto un nome solo due settimane dopo. Fossi stata al suo posto, avrei provato un dolore ben più profondo, probabilmente. E quindi non so dire se il nostro fosse solo amore o se ci fosse anche una punta di egoismo. Non so dire se la persona innamorata si renda conto di quanto l'anima soffra ben più del corpo. Uno poi lo capisce a posteriori, perchè mentre le vivi, certe vicende non ti consentono di mantenere la lucidità. Ma ancora una volta, quello che conta è un'altra cosa: in quel momento sei convinto che il dolore fisico sia la peggior cosa che possa capitare al partner, e allora non vuoi fargli conoscere quell'esperienza. Forse sei convinto che l'altro ti ami un briciolo di meno, e che quindi il male che deve sopportare la sua anima mentre ti vede soffrire fisicamente sia ben più sopportabile di quello che dovrebbe sopportare il suo corpo. E' un errore, ma lo scopri poi dopo, col tempo, quando sono passati almeno tre anni e anche il fastidioso e debilitante decorso post ricovero è pressochè superato e puoi tornare a mangiare e uscire senza temere di star male da un momento all'altro (magari dopo aver mangiato una patatina fritta). Ecco, dopo, vedi che le ferite dell'animo del partner non sono superate, e che siccome la tua pancreatite non ti abbandonerà mai...non abbandonerà mai nemmeno lui.